screenshot da Buddha of Oakland Vimeo
Uno dei vantaggi di avere un lavoro di ufficio è quello di poter ascoltare molta musica e podcast. Ultimamente ho scoperto Radiotopia che mette insieme diversi programmi radiofonici di qualità. Uno di questi si chiama "This is Criminal" e racconta storie criminali a 360 gradi: da delitti efferati (senza mai trascendere nel trash all'italiana) fino a storie di reati minori o collegate a reati vari.

Una di queste storie parla del Buddha di Oakland.

Dan Stevenson è un uomo comune che vive la sua vita tranquilla nella sua casa nel quartiere di Eastlake a Oakland in California.

La zona non è delle migliori perché ad alto tasso di microcriminalità: prostituzione, spaccio di droga, vandalismo, furti ecc... Una vita complicata ma Dan è uno che "si fa i fatti suoi" e quindi riesce ad andare avanti nonostante tutto. Quello che proprio non manda giù è la discarica abusiva che vede ogni santo giorno di fronte a casa sua. Materassi, divani, spazzatura varia ecc...

Lui e la moglie vogliono fare qualcosa per eliminare quell'immondizia davanti casa.

Ma cosa?

"Non sapevo bene cosa fare - racconta Dan Stevenson a "This is Criminal" - pensavo di mettere qualcosa nel mezzo di quella montagna di spazzatura. Non sapevamo cosa e poi un giorno vedemmo in un negozio una statua di pietra di Buddha. La comprammo e la lasciai lì assicurandomi che non la rubassero".

Una statua di pietra di Buddha su un cumulo di rifiuti.

Passa qualche mese senza che accada nulla di partiolare. Poi un giorno Dan vede che la statua è stata verniciata. Il giorno dopo scopre che sono stati aggiunti altri colori. E così via. Giorno dopo giorno la spazzatura sparisce, attorno al Buddha iniziano ad apparire fiori, cibo, addirittura una casa, videosorveglianza e di lì a poco cominceranno a riunirsi diverse persone (molte di origine vietnamita) per pregare e mantenere il posto pulito.

Non solo, la comunità vietnamita inizia a lasciare anche cibo davanti casa di Dan come ringraziamento. "Ho cercato di fargli capire - spiega divertito - che non c'è bisogno di farlo e che non sono buddhista. Non ho fatto niente di speciale. Volevo solo eliminare la spazzatura. Il resto lo hanno fatto loro".

Tutto questo accade nel 2009 e ad oggi il quartiere è notevolmente più tranquillo. Secondo la locale stazione di polizia i crimini sarebbero diminuiti dell'82%.

Quando ho finito di ascoltare questa storia mi è venuta in mente la teoria delle finestre rotte studiata ai tempi dell'università. Secondo questa teoria, in sintesi, se viene spaccata la finestra di un edificio è probabile che ne verrà spaccata un’altra mentre se la finestra è riparata, il processo di solito si ferma. Un teoria del buon esempio insomma.

Ora, onestamente non so quale percentuale di successo possa avere questa teoria se applicata ad ogni singolo aspetto della vita quotidiana. So, per averlo visto, che vi sono posti dove un senso civico più attivo può e fa la differenza almeno per il decoro urbano. Sul comportamento umano ho ancora i miei dubbi.

Nel frattempo, però, quando vedrò una finestra rotta cercherò di ripararla. O almeno di non romperne un'altra.

Sulla storia del Buddha di Oakland e di Dan Stevenson è stato realizzato anche un piccolo documentario.



Carlos Alberto Valderrama Palacio, conosciuto come Carlos "el Pibe" Valderrama è un giocatore che chi ama il calcio ed ha vissuto gli anni Novanta attaccato alla tv a guardare i Mondiali non può non ricordare.

Il numero 10 colombiano deve la sua fama a due cose: la sua classe e i suoi capelli. In Sudamerica è stato ed è ancora oggi uno dei giocatori più amati e apprezzati.

1. Una famiglia di calciatori. 
Valderrama non poteva non diventare un calciatore professionista considerato che quasi tutti nella sua famiglia lo sono stati. Solo per citarne alcuni: il padre Carlos “Jaricho” Valderrama, i fratelli Alan e Ronald e i cugini Didí Alex Valderrama e Miguel González Palacio. Ma ce ne sono molti altri...

2. Pescaíto, un quartiere di campioni. 
El "Pibe" è nato e cresciuto nel quartiere Pescaíto nella città di Santa Marta. Il quartiere è particolarmente conosciuto in Colombia per aver dato i natali a diversi calciatori professionisti. "Giocare in strada - ha raccontato Valderrama nel programma Pura Química in onda sulla Espn argentina - era calcio allo stato puro. Dribbling, tunnel, tecnica. L'esordio con il calcio professionistico fu un po' traumatico. Ci facevano correre chilometri su chilometri senza vedere mai il pallone. Un giorno chiesi al mister 'siamo una squadra di calcio, giusto? E allora non dovremmo usare il pallone?'"

3. La capigliatura.

Oltre ad essere conosciuto per i suoi assist e la sua classe, Valderrama non è mai passato in osservato per la sua acconciatura che gli valse anche il soprannome di "Gullit biondo". El Pibe ha sempre raccontato di aver scelto quello stile quando aveva circa 15 anni, visto che nel suo quartiere era di moda. "Mia madre - ha raccontato - li ha sempre odiati. Mi ha sempre detto 'sei così bello figlio mio, togliti quella cosa dalla testa'".

4. I Mondiali. 

Valderrama ha disputato con la nazionale colombiana - rigorosamente con numero 10 e fascia da capitano - tre mondiali: Italia '90, USA '94, Francia '98. Ha segnato un solo gol iridato proprio all'esordio di Italia '90 a Bologna contro gli Emirati Arabi, partita vinta poi 2-0. Sempre a Italia '90 raggiunse il massimo risultato raggiungendo gli ottavi di finale.

5. Il 5-0 contro l'Argentina. 
Una delle vittorie storiche per il calcio colombiano e nella carriera di Valderrama fu il 5-0 rifilato in trasferta in Argentina nel 1993 nelle qualificazioni per i Mondiali di USA '94.

6. L'ipotesi di ritiro dopo USA '94.
La disfatta di USA '94 con l'eliminazione della nazionale Colombiana al primo turno fu un momento durissimo per Valderrama. Oltre che per il fatto di essere arrivati negli Stati Uniti con l'etichetta di squadra da tenere d'occhio ed essere usciti subito è soprattutto per la delusione del popolo colombiano e per l'uccisione del compagno e amico  Andrés Escobar "reo" di aver siglato un autogol contro la Svizzera. El "Pibe" decise però di continuare a giocare. Con la Nazionale ha giocato in tutto 111 partite e segnato 11 gol ed ha ottenuto tre volte il terzo posto alla Copa America.

7. La statua.



Nella sua città natale, Santa Marta, hanno posto una scultura che lo rappresenta.

8. Le squadre e il palmares.
Valderrama ha giocato con: Unión Magdalena, Millonarios, Deportivo Cali, Montpellier, Real Valladolid, Ind. Medellin, Junior, Tampa Bay Mutiny, Miami Fusion e Colorado Rapids. In carriera ha vinto la Coppa di Francia con il Montpellier (89/90) e due campionati colombiani con l'Atlético Junior ('93 e '95).

9. FIFA 100.




Nel 2004 è stato inserito da Pelé nella classifica dei 100 migliori giocatori viventi al mondo.

10. L'addio al calcio.




Il primo febbraio del 2004 ha annunciato ufficialmente l'addio al calcio con una partita alla quale parteciparono giocatori del calibro di Jorge Campos, José Luis Chilavert e Faustino Asprilla. Assistettero al match 60mila persone.
foto Bexx Brown-Spinelli su Flickr
Luca Sofri ha scritto un post interessante su alcune tendenze del giornalismo nostrano: l'ego e la ossessione nel creare un storia. E' senza dubbio un pezzo che vale la pena leggere nella sua interezza ma questa parte mi ha colpito particolarmente.
 Una è una necessità sempre più pressante e trasparente di chi scrive di manifestare se stesso attraverso la scrittura: è una cosa che ha a che fare con una più estesa questione di insicurezze individuali e modelli competitivi nelle nostre società che influenza anche chi scrive articoli, la ricerca di affermazione di sé generata dal timore dell’insignificanza e dal bisogno di essere riconosciuti, notati, semplicemente visti. Nella scrittura giornalistica si traduce nella ricerca di artifici e virtuosismi che ricordino al lettore che non sta semplicemente leggendo di fatti, notizie e informazioni: ma che sta leggendo di qualcuno (io, me, l’autore!) che gli offre quei fatti, notizie e informazioni.
Il discorso dello scrivere giornalisticamente o di fare lo scrittore su un giornale è piuttosto vecchio. Esiste da sempre, credo, ossia da quando esiste gente che scrive su un giornale. In Italia poi, dove non esistono editori puri bensì editori che di lavoro fanno altro e usano i giornali per scopi personali, questo ha raggiunto una deriva ancor più incontrollata. Perché non scrivi per il lettore ma per qualcun altro se non addirittura per te stesso.

Il punto centrale però è quello dell'aderenza ai fatti. Descrivere un fatto necessita di regole da seguire per poter fornire tutte le informazioni necessarie al lettore per capire di cosa tu stia parlando. Questo si tramuta forzatamente in uno stile asciutto anche se saper fare il giornalista, a mio avviso, significa essere in grado di usare le giuste parole nel giusto ordine per cucire i vari pezzi della storia di cui ti sei occupato.

Sono convinto che se dieci persone assistessero allo stesso evento lo descriverebbero in maniera diversa.

Ora il problema del lavoro del giornalista è che, volente o nolente, a livelli alti come a quelli più bassi tende ad intaccare l'ego. Dire "faccio il giornalista" o vedere il nome sul giornale è comprensibilmente motivo d'orgoglio ma potenzialmente può dare alla testa. A tutti.

Quando lavoravo in Italia in vari giornali ho visto questa cosa accadere frequentemente in forme più o meno gravi e durature. Ho sempre raccontato come a me bastasse vedere poi lo schifo di busta paga che avevo per tornare rapidamente con i piedi per terra e credo/spero di esserci riuscito in ogni occasione. Ma il problema di fondo rimane.

Questo perché quando uno fa il giornalista entra in un circuito di email, inviti, telefonate, accrediti, conferenze stampa nelle "stanze dei bottoni", incontri con persone piacevoli e altri con personaggi incredibilmente viscidi. Questo può portarti a pensare, erroneamente, di essere ricercato perché sei tu (quando invece è il lavoro che svolgi) o di far parte di qualcosa di importante che solo tu puoi capire. Il che per certi versi è vero ma sbagliato. Perché il limite da non superare mai è quello tra l'essere spettatore/interlocutore privilegiato della realtà e il diventare parte integrante di quella realtà.

Superando quel limite si entra a far parte di quel circo barnum di ego che tu dovresti descrivere senza fronzoli solo da fuori. E diventa tutto un "Io sono Pinco Pallino del Giornale Tal dei Tali" e "Io sono l'assessore Tizio di Vattelapesca". Si finisce, inoltre, per sopravvalutare le tue qualità di scrittore. Perché tu non sei uno scrittore. Sei un cronista. Uno che racconta fatti, non romanzi. E scrivere bene non significa usare parole ad minchiam tirate fuori dal dizionario dei sinonimi e contrari. Vuol dire scrivere in modo che una persona che non conosce il fatto lo capisca bene. Il lettore non deve leggere te, deve leggere grazie a te quello che è successo.

PS: Non credo ci sia bisogno di sottolineare che ovviamente questo post non riguarda il 100% dei giornalisti.
foto Lukeroberts

Non ricordo bene dove, però una volta ho letto che quando apri un blog è come adottare un cane o addirittura avere un figlio. Non lo puoi abbandonare o chiudere da qualche parte. Ricordo pure di aver pensato che fosse esagerato e, a dirla tutta, lo penso ancora.

Però quando qualche tempo fa sono passato dalle parti de Il Rompiblog e ho letto la data dell'ultimo post - 7 marzo 2013 - ho avuto un mezzo infarto. Non mi ero reso conto fosse trascorso così tanto tempo.

Ora, non è che in questi due anni e mezzo sia stato senza fare nulla. Ho cambiato nazione, lavoro, vita. Ho aperto un sito (in caso foste interessati si chiama Notizie Multitasking) e cose così.

Il punto è proprio questo. Di questi ultimi anni qui non c'è traccia. Questo blog è cresciuto con me. Qui nel 2008 ho iniziato a scrivere, testare tutto quello che volevo imparare e/o non riuscivo a mettere in pratica nel lavoro quotidiano di giornalista.

Qui ho imparato a "embeddare” le prime cose e a smanettare con l'HTML. Qui ho scritto di attualità, politica, sport, libri, media, giornalismo, sindacato, ho fatto dirette twitter, ho pubblicato foto, racconti, ho fatto pubblicità ai libri che ho scritto e cercato di "monetizzare" quando all'epoca sembrava l'unica cosa da fare con un blog. Ho anche "tematizzato" il blog cercando di parlare solo di un argomento specifico. Ho fatto di tutto. Poi sono arrivati i social network, il "il blog è morto, viva il blog" e così via.

In tutto questo tempo mi sono convinto che Il Rompiblog non sia altro che questo. Il mio blog. Dove trovi di tutto un po' e molto probabilmente in modo confuso. "Tante cose e fatte male" come si direbbe. Però a me piace così. Ed è da qui che voglio ripartire. Motivo per il quale ho anche cambiato radicalmente la grafica del blog. Bianco, semplice.

Si riparte da zero.

Daje.