Giornalismo e Ego del Giornalista

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foto Bexx Brown-Spinelli su Flickr
Luca Sofri ha scritto un post interessante su alcune tendenze del giornalismo nostrano: l'ego e la ossessione nel creare un storia. E' senza dubbio un pezzo che vale la pena leggere nella sua interezza ma questa parte mi ha colpito particolarmente.
 Una è una necessità sempre più pressante e trasparente di chi scrive di manifestare se stesso attraverso la scrittura: è una cosa che ha a che fare con una più estesa questione di insicurezze individuali e modelli competitivi nelle nostre società che influenza anche chi scrive articoli, la ricerca di affermazione di sé generata dal timore dell’insignificanza e dal bisogno di essere riconosciuti, notati, semplicemente visti. Nella scrittura giornalistica si traduce nella ricerca di artifici e virtuosismi che ricordino al lettore che non sta semplicemente leggendo di fatti, notizie e informazioni: ma che sta leggendo di qualcuno (io, me, l’autore!) che gli offre quei fatti, notizie e informazioni.
Il discorso dello scrivere giornalisticamente o di fare lo scrittore su un giornale è piuttosto vecchio. Esiste da sempre, credo, ossia da quando esiste gente che scrive su un giornale. In Italia poi, dove non esistono editori puri bensì editori che di lavoro fanno altro e usano i giornali per scopi personali, questo ha raggiunto una deriva ancor più incontrollata. Perché non scrivi per il lettore ma per qualcun altro se non addirittura per te stesso.

Il punto centrale però è quello dell'aderenza ai fatti. Descrivere un fatto necessita di regole da seguire per poter fornire tutte le informazioni necessarie al lettore per capire di cosa tu stia parlando. Questo si tramuta forzatamente in uno stile asciutto anche se saper fare il giornalista, a mio avviso, significa essere in grado di usare le giuste parole nel giusto ordine per cucire i vari pezzi della storia di cui ti sei occupato.

Sono convinto che se dieci persone assistessero allo stesso evento lo descriverebbero in maniera diversa.

Ora il problema del lavoro del giornalista è che, volente o nolente, a livelli alti come a quelli più bassi tende ad intaccare l'ego. Dire "faccio il giornalista" o vedere il nome sul giornale è comprensibilmente motivo d'orgoglio ma potenzialmente può dare alla testa. A tutti.

Quando lavoravo in Italia in vari giornali ho visto questa cosa accadere frequentemente in forme più o meno gravi e durature. Ho sempre raccontato come a me bastasse vedere poi lo schifo di busta paga che avevo per tornare rapidamente con i piedi per terra e credo/spero di esserci riuscito in ogni occasione. Ma il problema di fondo rimane.

Questo perché quando uno fa il giornalista entra in un circuito di email, inviti, telefonate, accrediti, conferenze stampa nelle "stanze dei bottoni", incontri con persone piacevoli e altri con personaggi incredibilmente viscidi. Questo può portarti a pensare, erroneamente, di essere ricercato perché sei tu (quando invece è il lavoro che svolgi) o di far parte di qualcosa di importante che solo tu puoi capire. Il che per certi versi è vero ma sbagliato. Perché il limite da non superare mai è quello tra l'essere spettatore/interlocutore privilegiato della realtà e il diventare parte integrante di quella realtà.

Superando quel limite si entra a far parte di quel circo barnum di ego che tu dovresti descrivere senza fronzoli solo da fuori. E diventa tutto un "Io sono Pinco Pallino del Giornale Tal dei Tali" e "Io sono l'assessore Tizio di Vattelapesca". Si finisce, inoltre, per sopravvalutare le tue qualità di scrittore. Perché tu non sei uno scrittore. Sei un cronista. Uno che racconta fatti, non romanzi. E scrivere bene non significa usare parole ad minchiam tirate fuori dal dizionario dei sinonimi e contrari. Vuol dire scrivere in modo che una persona che non conosce il fatto lo capisca bene. Il lettore non deve leggere te, deve leggere grazie a te quello che è successo.

PS: Non credo ci sia bisogno di sottolineare che ovviamente questo post non riguarda il 100% dei giornalisti.
lunedì 24 agosto 2015


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