Il cast del film Spotlight

La vittoria dell'Oscar del film Spotlight del regista Tom McCarthy ha riportato alla memoria quanto accadde diversi anni fa, quando il Boston Globe scoperchiò il vaso di Pandora degli abusi sessuali su minori all'interno della chiesa cattolica.

Una inchiesta che portò il Boston Globe a vincere il Premio Pulitzer nel 2003. Il film si concentra in particolare sul lavoro di un team specifico all'interno del giornale, un team chiamato Spotlight per l'appunto.

Lo stesso giornale statunitense ha realizzato qualche mese fa un piccolo approfondimento sulla storia di questo team, sulla sua creazione (che risale a ben 46 anni fa) e sul caso oggetto del film con interviste ai protagonisti di ieri e di oggi.

Dura 12 minuti e merita di essere visto anche per comprendere la filosofia di fondo del giornalismo investigativo americano.


"L'idea - spiega il fondatore del team Tim Leland - era quella di prendere 4,5 o 6 giornalisti e toglierli dal lavoro quotidiano della redazione per farli lavorare insieme ad una storia specifica. Se mi avessero detto allora che questo sarebe diventato il più longevo team di giornalismo investigativo d'America non ci avrei mai creduto".

Il caporedattore del team Spotlight Scott Allen spiega anche come questo gruppo sia diventato un marchio di qualità per il resto del giornale.

"Quando pubblichiamo una storia sotto il logo Spolight vuol dire che quella sarà la più importante e più approfondita storia che il giornale sarà in grado di presentare ai lettori".

Il video, come detto, merita. Per chi fosse poi interessato ad avere un apporofondimento sul giornalismo americano da premio Pulitzer segnalo la serie "Indi-Pulitzer" di Minimum Fax curata da Simone Barillari. Quattro tomi (in Italiano) che raccolgono tutte le grandi inchieste del giornalismo americano vincitrici del più importante premio giornalistico.

Nello specifico il caso Spotlight viene raccontato nel libro a cura di Simone Barillari dal titolo Sette pezzi d'America. Dal Watergate a Scientology, i grandi scandali americani raccontati dai premi Pulitzer

Il sito di Dole/Kemp. Fonte: Museum of the Moving Image

A ripensarci ora sembra preistoria ed invece sono trascorsi "solo" 20 anni dalla comparsa dei primi siti web per la campagna presidenziale americana del 1996.

Oggi, ogni candidato che si rispetti ha sito web e canali social ovunque. Si tratta di pura normalità. All'epoca però non lo era. Internet era ancora un bebè ma l'allora presidente Democratico in carica Bill Clinton e il rivale Republicano Bob Dole capirono che era essenziale "essere online". E, come spesso accade nei film che raccontano del sogno americano, si rivolsero a giovani di belle speranze che realizzarono dei siti web che oggi si trovano nell'archvio del Museum of the Moving Image.

Il Wall Street Journal ha intervistato i creatori dei due siti e quello che ne emerge è un racconto a volte surreale soprattutto se rapportato con l'iperconnettività del mondo in cui viviamo oggi.

Ne riporto solo alcuni stralci tradotti ma tutta l'intervista merita.

Rob Kubasko e Vincent Salvato erano poco più che ventenni quando furono ingaggiati da Bob Dole per la creazione del suo sito.
All'epoca - dice Kubasko - se non avevi un sito web eri vecchio e antiquato e Bob Dole non aveva bisogno di sembrare ancora più antiquato. Ma c'era un piano? No! Andò letteralmente così: abbiamo bisogno di avere un sito web e deve essere migliore di quello di Bill Clinton. Queste erano fase uno e due. La terza fase era, forse, raccogliere i dati. [...] Avremmo pubblicato aggiornamenti live. I ragazzi dello staff avrebbero stampato, annotato e inviato un fax con i cambiamenti a me. Avevo cinque metri di fax disseminati per tutta la mia camera. Era davvero ridicolo.
Tutto questo mentre a New York altri due giovani lavoravano al sito di Bill Clinton. Erano Mark Patricof e Trevor Kaufman.
Io mi occupavo del lato commerciale - racconta Patricof - mentre il mio socio Trevor era il tecnico. Abbiamo aperto i battenti nel mese di febbraio e siamo stati assunti a maggio... Abbiamo fatto un sacco di promesse che non potevamo probabilmente mantenere. Ma eravamo dei giovani, intelligenti, ragazzi aggressivi che conoscevano Internet e sapevano vendere. Avremmo promesso una cosa e capito come farla in seguito.

Il sito di Clinton/Gore. Fonte: Museum of the Moving Image
Il racconto di Kaufman sull'incontro nell'ufficio di Al Gore (all'epoca vicepresidente anche lui in corsa per la ri-elezione) è surreale.
Avevamo questo incontro in programma per presentare a lui (Al Gore, ndc) il sito. Siamo andati alla Casa Bianca e Internet saltò. Pensi se succedesse ora - ma allora, semplicemente non era importante. Il ragazzo con cui eravamo in contatto era troppo in imbarazzo per dire qualcosa al vice presidente. Ero mortificato. Dissi: "ho una parte del sito nel mio laptop gliela posso mostrare". Pensai che avevamo appena rovinato tutto completamente. Che ero un idiota. E lui sorride e dice: "Mi sembra perfetto. Questo è quello che vuoi che dica, no?" Fu un grande. Dopodiché abbiamo scattato alcune foto.
L'intervista completa sul Wall Street Journal si può leggere qui: An Oral History of The First Presidential Campaign Websites in 1996


Il collettivo di animazione e computer grafica londinese The Line ha creato un videogioco in cui devi aiutare Leonardo Di Caprio ad acciuffare un Oscar.

Si chiama Red Carpet Rampage. Mentre corri sul tappeto rosso tentando di seminare gli avversari, devi accaparrarti il maggior numero di bonus (Golden Globe e Bafta Awards) e devi pure schivare Lady Gaga. Che non è mica facile, eh.

Il trailer mette subito addosso la voglia di giocarci. Pure perché Di Caprio 'sto cacchio di Oscar se lo meriterebbe pure.


L'altra cosa cosa interessante è navigare sul sito del collettivo The Line Studio dove si possono vedere anche gli altri lavori realizzati nel corso del tempo. Alcuni dei quali piuttosto belli.

E, sempre parlando di premi, nel 2014 il loro cortometraggio "Everything I Can See From Here" è stato nomitato per un Bafta Awards. Proprio come Di Caprio. Visto che tutto torna?